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Recensione

Titolo: Cuba libre era solo un cocktail - Viaggio nella crisi del castrismo.
Autore: Lucio Lami
Casa editrice: Spirali/Vel edizioni - 1995
pagg. 260 £. 30.000

(f.g.) Le speranze coltivate da Lucio Lami - al momento di scrivere questo libro - possono essere state molte.
Sicuramente, fra esse, non trova posto quella di arricchirsi.
Con ogni probabilità, infatti, dal momento che va contro l'immagine stereotipata e propagandistica di Cuba che ha tanto successo dalle nostre parti, "Cuba libre" non è destinato a vendere molte copie.
La lucida (e coraggiosa) denuncia della dittatura castrista - realizzata con tutti i crismi dell'avvincente indagine giornalistica da un "principe degli inviati" quale è Lami - si presenta come un urlo nel colpevole silenzio ordito ad arte dai nostri cosiddetti intellettuali nostrani. Il Fidel Castro che ne emerge è uno spregiudicato filibustiere che ha fatto del mito della Rivoluzione, dell'amicizia con Mosca prima e con la Chiesa dopo, (anche se per trent'anni da lui perseguitata), unicamente delle armi per rimanere aggrappato all'unica cosa cui tiene veramente: il potere.
L'immaginetta propagandata in Italia dalle innumerevoli associazioni filo-cubane e dai giornalisti "in ginocchio" come Minà - quella di un bonario Fidel padre un po' severo di Cuba e dei cubani - ne esce obiettivamente distrutta. La Cuba narrata da Lami e, attraverso di lui, dai dissidenti perseguitati, incarcerati, torturati, è tutt'altro che il festoso "socialismo salsa-merengue" che ci propinano i colorati opuscoli delle agenzie turistiche. E' una società controllata fino all'ultimo cittadino, con tanto di microfoni-spia e capi-fabbricato di mussoliniana memoria.
Dalle pagine di "Cuba libre" emerge anche un Fidel Castro inedito a molti, e cioè cinico organizzatore di buona parte del narco-traffico centro-americano, nonché azionista miliardario in molte multinazionali estere. Tutt'altro quindi che un eroe del lotta al capitalismo mondiale, come le recenti paternali al Congresso FAO a Roma vorrebbero farci credere. Lami - cui è stato proibito da tempo l'accesso a Cuba con l'accusa di essere, of course, un agente della CIA - ci parla di cittadini malmenati dalle "ronde spontanee" sotto gli occhi della polizia indifferente, di poetesse aggredite in casa propria e obbligate a ingoiare i propri scritti, di vecchi amici di lotta di Fidel incarcerati dopo aver denunciato il tradimento della rivoluzione contro Batista, di anziani che cercano nelle aiuole per la strada qualche foglia d'erba commestibile.
In pratica, nulla di tutto ciò che si legge sui nostri quotidiani nazionali, anche i più moderati. La diagnosi finale è, per il grande giornalista di scuola montanelliana, solo una: c'è una buona parte di mondo che ha bisogno che esista un Fidel Castro, perché possa continuare il Grande Sogno.
A dispetto dei rottami lasciati alle spalle, a dispetto delle vittime, a dispetto di un popolo ai limiti dell'indigenza.
Semplicemente perché nei nostri confortevoli salotti europei di fine millennio, al riparo dai fallimenti del comunismo, si possa dire: "Lì gli yankee non sono arrivati."


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